Mostra Antologica

Anno 2005, Ex Ateneo

Piazza Reginaldo Giuliani, Bergamo Alta

La mostra antologica di Michele Agnoletto

 

 

Quando il presidente del Circolo Greppi, Aldo Monti, mi ha affidato il gradito compito di scrivere queste note a proposito della recente mostra antologica dedicata al papà ho accettato con vero piacere, anche perché ho così l’occasione di porre rimedio ad una lacuna da me lasciata (causa emozione) il giorno dell’inaugurazione al momento dei ringraziamenti.

Intendo infatti ringraziare pubblicamente, oltre allo stesso Presidente Aldo Monti, il critico don Lino Lazzari, il Presidente del Circolo Artistico

Bergamasco Cesare Morali e i Sigg. Nisoli, Nava, Sironi, Milani, Reduzzi, Sandrinelli e mio fratello Tito che si è accollato il maggiore onere organizzativo. Tutte queste persone hanno dedicato tempo e specifiche competenze con amabile trasporto e totale disponibilità per la buona riuscita della manifestazione, e nominarle singolarmente mi sembra davvero il minimo riconoscimento a loro dovuto. Grazie di cuore.

 

Ciò detto, cercherò di trasmettere le sensazioni che questa esperienza mi pare abbia prodotto su gran parte dei visitatori comuni.

Iniziamo dallo spazio espositivo. Molto apprezzato per la sua dislocazione nel cuore della nostra splendida città vecchia, il salone dell’ex Ateneo si è ben prestato per accogliere circa 130 lavori, tra dipinti, disegni, acquerelli e bronzi. I grandi pannelli bianchi e l’illuminazione individuale di ogni pannello hanno permesso ai visitatori di osservare le opere esposte con tutta l’attenzione che ognuno ha voluto riservare a seconda del proprio gradimento. Inoltre, chi ha ideato la disposizione ha a mio parere giustamente suddiviso i lavori secondo le tematiche, di modo che è stato possibile osservare come col trascorrere degli anni la tecnica pittorica sia mutata, o uno stesso soggetto sia stato trattato con diversa sensibilità, oppure ancora alcuni temi siano stati approfonditi col passare del tempo.

Nonostante il nutrito numero di lavori esposti, mi pare che la sensazione generale sia comunque stata di spazi adeguati che hanno consentito nel complesso una buona fruizione della mostra, senza dare quindi l’impressione di un’eccessiva concentrazione.

 

Veniamo ai visitatori.

Certamente l’ubicazione della sala d’esposizione ha favorito l’afflusso di un buon numero di persone, tra le quali molti stranieri non si sono

lasciati sfuggire l’opportunità di lasciare per iscritto (la maggior parte delle volte nella propria lingua, ma in alcuni casi anche in un italiano approssimativo e comunque spontaneo e sincero) un breve commento sulla rassegna appena vista. Credo che quanti sono transitati rappresentino uno spaccato significativo della società: dal curioso all’appassionato d’arte, dal turista all’artista, dall’esperto all’ex allievo. Proprio su questa categoria vorrei soffermarmi per un attimo.

 

Papà ha vissuto a Bergamo per oltre quarant’anni e per una buona parte di questi ha insegnato in diversi istituti scolastici della città, dunque sono veramente molte le persone che lo hanno avuto come insegnante di Storia dell’Arte o di Disegno. Per noi familiari è stato emozionante e a volte commovente sentire nella voce di chi lo conobbe trenta o quaranta anni fa un ricordo ancora così vivo e forte della figura umana e delle sue qualità morali e professionali. Segno, questo, di una presenza in classe concreta ed attiva che ha sempre puntato a far emergere negli allievi le singole qualità personali prima ancora che quelle specifiche della materia insegnata. Segno anche di una cordiale apertura d’animo tesa ad offrire l’esperienza di una vita marchiata da due conflitti mondiali, da una malattia che, appena quarantenne, lo stava portando ad una fine prematura, e da una granitica tenacia che ha sempre poggiato su di una altrettanto granitica fede in Dio.

 

Il mio compito, qui, non è evidentemente quello di esprimere giudizi o valutazioni di ordine tecnico o espressivo sull’opera di papà, anche perché non ho purtroppo la minima competenza per farlo. Tuttavia, su un quadro vorrei soffermarmi: il “Cieco di Gerico”. Non l’avevo mai visto dal vero prima d’ora, perciò è stata per me una vera emozione che mi ha permesso, oltretutto, di farmi un’idea più definita di quello che deve aver provato papà nel dipingere questa tela. Vi chiedo di ricordarlo per un attimo: il Cristo accoglie il Cieco, che viene accompagnato da un timoroso terzo personaggio. Io lo leggo così. Dall’angolo superiore destro della tela giunge un fascio di luce abbagliante che investe in pieno Gesù, e si propaga in direzione dello sventurato: è Dio che si serve del Figlio per far giungere il Suo messaggio all’Uomo che, a sua volta, vuole cercare questa luce.

 

Nella composizione delle masse pittoriche Gesù è isolato, mentre il cieco ed il suo accompagnatore fanno massa unica: sono quindi due masse che raffigurano l’amore di Dio per l’uomo (il braccio di Gesù che si protende verso il cieco per guarirlo e, d’altra parte, il cieco che, sorretto dal suo accompagnatore, si affida totalmente a quella mano che lo sta per guarire). Evidentemente, al di là del fatto miracoloso possiamo cogliere la simbologia per cui la cecità dello Uomo sta nel non saper riconoscere che Dio-Gesù è la luce ma tuttavia sente che solo se seguirà quella strada troverà la vita eterna. Il volto dell’accompagnatore credo possa ben rappresentare il travaglio di quella parte di umanità che stenta a trovare quella strada: è un misto di angoscia derivante dal fatto di non trovarla e di speranza, tuttavia ancora diffidente, che quella mano sia l’unico appiglio sicuro.

 

Ho parlato di un dipinto di carattere sacro, ma mi pare che questa ispirazione sinceramente devozionale, come la definisce don Lino Lazzari, sia possibile riscontrarla anche in soggetti di natura diversa. Si può avvertire un’atmosfera mistica in qualche paesaggio dove è evidente la gratitudine all’Onnipotente per la bellezza della natura, ma la si può ritrovare anche in una famiglia dove la mamma è intenta ad allattare il suo piccolo.

Concludo. Come figlio posso testimoniare di mio padre la sua sincera ricerca di esprimere emozioni e sensazioni che potessero toccare l’animo di chi avrebbe poi osservato i suoi lavori. Posso garantire che non si accontentava facilmente di ciò che realizzava, perché era sempre alla ricerca di esprimersi al meglio delle sue capacità, proprio per trasmettere l’ideale che siamo sempre sostenuti da un qualcosa ben più grande di noi e che, se confidiamo in questo, riusciamo dove, diversamente, falliremmo.

 

 

Credo che la gran parte dei visitatori si sia portata dentro di sé la sensazione di un uomo sincero, delicato, sensibile e buono: un uomo che ha dipinto le sue tele cercando sia i morbidi equilibri cromatici di un Arlecchino che corteggia la sua danzatrice che i violenti e bruschi stacchi che sottolineano la tragica esperienza di un’alluvione, che ha modellato tante diverse figure cercando di trasmettere sia la vigoria di un atleta che la santa compostezza della Famiglia, che ha ricreato con una semplice matita tanto la cosmica sofferenza del Cristo alla colonna quanto la serena malinconia di un cavallo affaticato col capo chino in cerca di un ultimo ciuffo d’erba da brucare. Sempre e comunque messaggi di fiducia e speranza nel futuro, di amore per i valori autentici ed immortali che rendono la vita un patrimonio prezioso e irripetibile nella sua unicità da condividere in armonia con se stessi e con il prossimo.

 

Lucio Agnoletto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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